Su pippìu de sa funtana |
Scritto da "Su Cuccumeu" |
Sabato 01 Agosto 2009 13:31 |
Antoninca Baralla scendeva lentamente lungo il sentiero scosceso che dai costoni del monte Ualla portava fino al fiume per risalire poi, ancora più ripido, verso il villaggio di Asone. Il sacco di carbone che trasportava in equilibrio sul grosso cercine, fatto con un vecchio cosciale di pantalone arrotolato e legato con lo spago, poggiato sulla testa, non le facilitava certo il compito, per fortuna, o per disgrazia, dipende dai punti di vista, conosceva perfettamente il percorso ed i piedi trovavano da soli il punto più sicuro su cui poggiare. Capitava sempre più spesso che suo marito Bustianu Pontis, il carbonaio, rimanesse in montagna per accudire alle fogaias e non rientrasse più nemmeno la domenica. Antoninca era una donna energica ed allegra ed anche se non era più tanto giovane le piaceva scherzare con tutti, meglio ancora se rappresentanti dell’altro sesso, e la mancanza di compagnia del marito non le impediva di cercarne e spesso anche di trovarne altre. Ciò nonostante, puntualmente, ogni sabato mattina, partiva dal paese con una bertula contenente pane, formaggio, lardo ed un fiasco di vino, le provviste per una settimana che potevano servire a Bustianu nel caso in cui, ancora una volta, non si fosse potuto, o voluto, muovere dal monte per sorvegliare le focaie. Il carbone era il loro unico sostentamento oltre alla produzione, comunque molto limitata, di lunghi forconi, raddrizzati al calore della brace, che si utilizzavano come supporti per pulire dalla cenere i forni del pane prima della cottura. Quella di Bustianu era una vita dura e solitaria, faceva quel mestiere praticamente fin da bambino e quando da giovane aveva sposato Antoninca l’aveva fatto sopratutto perché voleva dei figli che lo aiutassero in quel mestiere ingrato. Purtroppo questo suo desiderio non potè mai essere esaudito perché proprio poco dopo il matrimonio una pertica di lentisco tagliata male con una roncolata insicura gli sbattè violentemente sulle parti basse ed oltre al grande dolore del momento ebbe danneggiati irrimediabilmente gli organi riproduttivi e questo lo addolorò per il resto della sua vita. Il fatto fu risaputo in paese e la gente lo sfotteva come fosse un eunuco, anche Antoninca non la prese molto bene, era una donna giovane ed aveva le sue necessità per cui dopo breve tempo, pur non rinnegandolo, cercò consolazione altrove ed anche se questo era risaputo nessuno si prendeva gioco di lei perché lo faceva per necessità e con discrezione, mai con uomini già ammogliati. Con il passare degli anni l’umore di Bustianu si faceva sempre più cupo, sapeva anche lui delle scappatelle della moglie ed il fatto che lui non potesse in alcun modo soddisfarla leniva solo in parte il suo dolore. Trascorreva in solitudine i suoi giorni, con l’unica compagnia di brusetta, una cagnolina rossiccia di piccola taglia che camminava impettita con la coda arrotolata ed alla quale Bustianu aveva insegnato a salire sull’asino che utilizzava per il trasporto della legna e del carbone. L’unico vizio che si permetteva era quello del fumo, era più il tempo che ci metteva a farsi le sigarette che a fumarle. Era una specie di cerimonia, estraeva l’unica cosa di valore che si portava addosso, una scatoletta porta trinciato di latta argentata, con sovra impresse le sue iniziali, o per meglio dire di chi gliela aveva regalata anni addietro il colonnello Benito Perra, un ufficiale dell’esercito in pensione con una gran passione per la caccia, metteva con cura il trinciato sulla cartina, lo pressava dolcemente facendo arrotolare e srotolare la cartina infine l’avvolgeva e con un colpo di lingua la sigillava, l’accendeva con la vecchia macchinetta a benzina e cominciava a tirare delle lunghe boccate che assaporava con beatitudine, più che un vizio era un rito. Al colonnello Perra aveva indicato con precisione il punto in cui si radunavano per dormire un branco di cinghiali, non ci fu neppure bisogno di fare una battuta, su corcadroxiu era in fondo ad un canalone chiuso, c’era una sola uscita. Fu sufficiente che Bustianu tirasse alcuni sassi per stanarli ed il colonnello Perra fece secchi quattro cinghiali, tre grandi ed uno piccolo ancora con le strisce. Fu talmente contento della caccia che regalò a Bustianu il cinghialetto piccolo , il suo porta trinciato argentato con in rilievo le sue iniziali, che poi erano anche quelle di Bustianu, ed un’intero pacco di tabacco forte, con la promessa che se fosse di nuovo capitato da quelle parti ci avrebbe pensato lui a rifornirlo di tabacco. A volte invece gli capitava di non vedere nessuno per un’intera settimana, oltre alle uniche persone che incontrava nel territorio dove lavorava, erano il capraio Pissenti Concali e più raramente il vecchio mugnaio Ciccinu Serra. Pissente Concale era, come Bustianu un uomo di montagna molto riservato, si trovava più a suo agio con le capre che con la gente, tra loro c’era un patto non scritto ma rispettato da entrambi. Bustianu con il suo girovagare in montagna, soprattutto alla ricerca di forconi che fossero il più possibile dritti e della giusta misura, spesse volte s’imbatteva in qualche capra, magari appena figliata che si era allontanata dal branco e se non era ancora buio, passava all’ovile di Pissenti per segnalargli il fatto. In cambio, Pissenti lo riforniva di caglio di capretto seccato e affumicato che a a lui piaceva molto e del formaggio di capra che Pissenti si ostinava a fare con le sue mani nel proprio ovile, Bustianu non lo rifiutava per non dispiacere al compaesano ma regolarmente lo metteva da parte nella sua pinneta e non lo toccavano manco le mosche per farlo diventare marcio. Era color calcina, duro come la roccia e piccante come pepe nero, eppure quando arrivavano le comitive di cacciatori da Casteddu facevano a gara per comprarglielo, dicevano che quella si che era una cosa genuina e che aveva un profumo ed un sapore di selvatico e soprattutto che faceva bere. Così campava Pissente Concali, correndo appresso alle capre tutto il giorno e facendogli la guardia di notte per paura dei ladrones. Nel periodo dei capretti, in pratica da Natale a Pasqua, non chiudeva occhio, se si distraeva rischiava di perdere in una sola notte il frutto del lavoro di un anno. Lo stesso quando era il periodo delle capre grasse da fine maggio a fine agosto, qualche furbastro, con la scusa di andare al fiume per pescare anguille e trote, trovandosi qualcuna delle sue bestie a portata di roncola, a cena si cucinava capra arrosto invece che pesce. Per questo, prima che facesse buio a forza di grida e di sassi tirati nel modo giusto, riusciva a radunare le bestie nel recinto dell’ovile, non che li fossero completamente al sicuro, anzi, a volte in qualche notte senza luna e con i cani addormentati come rincoglioniti, qualche capra gliel’avevano fregata anche da lì. Purtroppo, per via di una soffiata di qualche compaesano fraitzu, i carabinieri di Assenes, anni addietro, avevano fatto una perquisizione nel suo ovile e gli avevano sequestrato un vecchio calibro sedici a cani esterni e a matricola limata per cui era rimasto senza un’arma per difendere se stesso ed i suoi averi e con in testa una condanna con la condizionale. Quando Antoninca, dopo una la lunga scarpinata, raggiungeva la capanna dove Bustianu soggiornava gli segnalava l’arrivo percuotendo con un vecchio ferro di cavallo un barattolo di latta appeso all’albero di olivastro piazzato di fianco all’ingresso della capanna, per Bustianu era il segnale che lei era arrivata e che la sua grama esistenza contava una settimana di vita in più. La capanna era in posizione strategica, a pochi metri sul retro c’era un dirupo alto una decina di metri e sul davanti, tranne il vecchio olivastro di fianco all’ingresso era tutto libero e la vista poteva spaziare fino al paese. Poche decine di metri più in basso, oltre il dirupo, una sorgente perenne ,incastonata nel mezzo di un bosco di caprifichi e di fichi innestati, forniva a Bustianu l’acqua di cui aveva bisogno oltre a fornire ristoro alle compagnie di cacciatori che frequentavano la zona. Antoninca raggiungeva la montagna quasi sempre intorno a mezzogiorno per cui era loro consuetudine consumare insieme un parco pranzo e durante lo stesso discutere delle richieste e delle vendite di carbone, o di chi era partito dal paese in cerca di fortuna o degli altri che erano invece passati a miglior vita, anche se a dire la verità a Bustianu non importava granchè di quello che succedeva in paese. Era ormai da un pezzo che durante queste discussioni convenivano sulla necessità di acquistare un altro asino o meglio ancora un mulo perchè il ricavato del poco carbone che Antoninca riusciva a trasportare non era più sufficiente a farli sopravvivere decentemente. Ma il tempo passava ed il poco che Antoninca riusciva ad incassare quasi non bastava più nemmeno per sostentarli, tant’è che a differenza di molti altri paesani, non si erano ancora potuti permettere di mettere in casa neppure un rubinetto dell’acqua dell’acquedotto ne la corrente elettrica. Beveva acqua pescata dal pozzo di Funtanoa e per luce il lume a olio di lentischio, a dire la verità non è che la cosa sarebbe poi cambiata di molto dato che tutte le stanze della vecchia casa erano nere come il carbone che Antoninca vi depositava in attesa di venderlo e nessuna luce, neppure quella elettrica avrebbe potuto rischiarare quegli ambienti. Così come l’acqua corrente da sola non avrebbe mai potuto lavare la polvere di carbone che orami faceva parte integrante dell’ambiente ma anche della pelle di Antoninca, presente persino nelle sue parti intime, non si capiva dove finiva il nero del carbone e cominciava il nero dei suoi peli ispidi. Tutto ciò non le impediva comunque di avere dei compagni di giochi, amorosi s’intende, anzi, dato che la sua disponibilità era nota, gli amanti erano più di uno. Uno in particolare, compare Arremmundu, uno scapolone impenitente era il suo compagno di giochi preferito, sempre con discrezione, naturalmente. I loro incontri avvenivano quasi sempre a tarda sera, Arremundu passava dall’orto dietro la chiesa, senza farsi vedere, scavalcava alcuni muretti a secco e infine arrivava nel cortile di Antoninca. Quel sabato, mentre risaliva faticosamente verso il villaggio con il suo sacco di carbone in testa Antoninca pensava già all’incontro che avrebbe avuto quella sera con compare Arremmundu e rifletteva sulla necessità di chiedergli di dargli uno dei suoi muli, non per il fatto che gli si concedeva, lei non l’avrebbe mai fatto per soldi, ma perché ormai cominciava a sentire la fatica dovuta al trasporto del carbone. Quella sera compare Arremmundu fu più arzillo del solito e Antoninca più disponibile che mai, per cui quando alla fine dei loro amplessi gli chiese di poter avere il mulo lui fu ben felice di accontentarla, così avrebbe avuto la scusa di andarla a trovare anche alla luce del sole per ritirare il carbone che avrebbe dovuto dargli in cambio del mulo e le malelingue avrebbero avuto più difficoltà a sparlare dei loro incontri. Antoninca con i suoi quarant’anni e passa aveva un suo calendario tutto particolare per calcolare i periodi fertili e quelli no nei quali poteva avere tutti i rapporti che voleva senza correre il rischio di rimanere incinta. Perché un conto era avere altri uomini, un altro era rimanere incinta dato che era risputo da tutti che Bustianu di figli non ne poteva avere. Quando Antoninca tornò con il mulo per la prima volta da Bustianu, dovette faticare non poco a convincerlo che era stato un buon affare dato che compare Arremmundu aveva accettato di farsi pagare in carbone, due dozzine di sacchi in tutto, uno al mese per due anni. Addirittura aveva accettato di dividere il sacco mensile in sacchetti piccoli da ritirarsi ogni sabato. Alla fine anche Arremmundu convenne che forse era un affare anche se aveva il sospetto che da parte di compare Arremmundu non si trattasse solo di buon cuore. Daltronde ad Antoninca cominciava veramente a pesare il dover trasportare con le sue sole forze il carbone, inoltre, quello che riusciva a produrre Buistianu era molto più di quanto lei ne riuscisse a trasportare. L’animale si dimostrò docile e resistente alla fatica, a quanto diceva compare Arremmundu aveva un solo difetto, pare che si imbizzarrisse alla vista di gente vestita in divisa o in palandrana, insomma era allergico a preti, carabinieri, postini e roba simile, per il resto era un ottimo animale. Era robusto e forte, già al primo viaggio riuscì a trasportare senza fatica alcuna quattro volte tanto carbone quanto riusciva portarne normalmente Antoninca ed anche un mazzo di pertiche caricate per lungo sopra i sacchi. Ogni sabato compare Arremmundu andava a prendersi il suo sacchetto di carbone e ovviamente, sulla stuoia della cucina, si prendeva anche Antoninca che a differenza degli altri fine settimana era bella riposata dato che a faticare per il trasporto non era più lei ma il mulo. Erano trascorsi ormai oltre tre mesi “dall’acquisto” e qualche soldino in più cominciava a vedersi dato che Antoninca, con il suo mulo, poteva vendere il carbone anche nei paesi vicini. Ma era preoccupata, le sue cose, sempre puntuali, stavolta erano in forte ritardo, con la mente tornava ai mesi precedenti, alla volta che chiese e ottenne da compare Arremmundu il mulo che tanto desiderava, forse per quella necessità aveva fatto male i conti, non era stata attenta come avrebbe dovuto e aveva fatto la frittata. A quei tempi non è che si poteva andare in un ospedale e abortire, e no, o si andava da una persona pratica di queste cose che con discrezione procedeva con metodi abbastanza brutali a eliminare “il problema” oppure si cercava di nascondere la propria condizione e quindi all’atto della nascita del figlio indesiderato era la stessa madre a risolvere “il problema”. Antoninca prese tempo per vedere se era solo un normale ritardo, altrimenti, per mantenere il massimo segreto, avrebbe optato per la soluzione personale. Purtroppo non era un ritardo e la pancia cominciò a crescere, anche Bustianu se ne accorse e pensò immediatamente che il metter su pancia della moglie fosse dovuto al fatto che non faticava più a trasportare i sacchi di carbone per cui era normale che ingrassasse. Nei mesi successivi Antoninca si cautelò indossando vestiti sempre più larghi ed anche i vicini e gli altri conoscenti giunsero alla conclusione che il mangiare bene dovuto agli incassi più cospicui della vendita del carbone in aggiunta alla scarsa attività fisica rispetto a prima la stavano facendo ingrassare. Compare Arremmundu, era ormai l’unico con il quale Antoninca aveva “incontri ravvicinati” così come era l’unico a conoscere il vero motivo del suo “ingrossamento “ ma forse per il timore di essere coinvolto pubblicamente nella vicenda andava sempre meno spesso a riscuotere il suo solito sacchetto di carbone. Antoninca era una donna, come si dice, tutta d’un pezzo, non temeva nulla e nessuno, ne quando andava da sola in montagna da Bustianu a prendere il carbone ne quando partiva, la mattina presto, ancora al buio nei paesi vicini per venderlo, ma quando pensava a cosa l’aspettava di li poco dentro di lei si scatenava il demone della paura. Per quello che doveva fare non poteva chiedere l’aiuto di nessuno, era un problema che doveva affrontare da sola, doveva eliminare il frutto del suo peccato altrimenti la gente del paese l’avrebbe svergognata, il marito l’avrebbe lasciata o forse addirittura uccisa. Nei primi giorni del nono mese di gravidanza il nascituro si divertiva a scalciare come un mulo, sembrava volesse venire al mondo prima del dovuto, poi improvvisamente tutto finì, niente più calci, ne doglie e nessun segno di movimento dentro il ventre. Lei di figli non ne aveva mai avuti, non aveva nessuna esperienza e quindi pensò che fosse una cosa normale, ma quando la cosa si prolungò per altre due settimane oltre il nono mese, pur non sapendo il da farsi, cominciò seriamente a preoccuparsi. Fortuna volle che non dovette macchiarsi dell’orrendo delitto che s’immaginava di dover compiere, all’inizio della terza settimana dopo il nono mese ebbe un’emorragia e sulla stuoia della cucina partorì un feto deforme e già morto. Stentò non poco a riprendersi, l’emorragia ed il grande dolore l’avevano sfinita, ciò nonostante ebbe la forza di infilare il feto dentro uno dei sacchetti vuoti di carbone che poi avvolse con la tela cerata che portava quando pioveva poi nascose il tutto sotto il carbone. Per fortuna si era nel mese di febbraio ed il freddo non agevolava le infezioni, la sua dura tempra fece il resto e dopo appena due giorni era di nuovo in grado di potersi muovere quasi normalmente. Nello sconnesso acciottolato del cortile recuperò alcuni ciottoli arrotondati che infilò nel sacco contenente il feto ed il giorno successivo, come al solito di mattina presto che era ancora buio, decise che era giunta l’ora di andare a Nurrei, un paese vicino, per vendere alcuni sacchi di carbone e per fare quello che doveva. Con cura caricò i sacchi sul mulo e con essi il piccolo sacchetto con il feto con dentro le pietre sempre avvolto nel telo cerato affinché non fuoriuscisse del sangue. Quando all’uscita del paese arrivò al pozzo di Prunixedda, dopo essersi guardata furtivamente intorno, vi scaraventò il sacco con il feto che così zavorrato di pietre affondò immediatamente, dopodichè nel vicino abbeveratoio lavò dal sangue il telo cerato e lo mise poi ad asciugarsi sui sacchi di carbone in groppa al mulo e proseguì verso il paese di Nurrei ove doveva vendere il suo carbone. Per non fare notare troppo l’improvviso “dimagrimento” Antoninca, sotto l’ampia gonna si cinse la pancia di stracci che un poco alla volta avrebbe eliminato così nessuno si sarebbe accorto di nulla. L’acqua del pozzo in cui aveva gettato il feto non veniva mai utilizzata dai paesani per bere, era troppo pesante, al massimo veniva utilizzata facendola bollire a lungo, per cucinare. La falda che alimentava il pozzo era superficiale per cui, quando le precipitazioni diminuivano o cessavano del tutto il livello dell’acqua si abbassava notevolmente, cosa che avvenne anche quella primavera, e quando il livello si abbassava e le consunte funi che tiravano su i secchi da una profondità maggiore capitava che si rompessero. In questo caso si utilizzavano delle particolari ancorette che servivano per il recupero dei secchi rimasti sul fondo, cosa che cercò di fare anche ziu Franciscu Licheri quel fatidico giorno di fine maggio. Quale non fu la sua sorpresa quando, dopo alcuni tentativi andati a vuoto, le ancorette agganciarono un sacco e dovette faticare non poco per portarlo su fino al livello dell’acqua, era indeciso sul da farsi anche perché sull’acqua si era formata un leggera patina oleosa, e si sentiva persino puzza, magari qualche scemo, per dispetto, aveva buttato un cane o una pecora nel pozzo. Aspettò per un po che si facesse vivo qualcuno alla fine non comparendo anima viva prese coraggio e decise di tirare su con forza, al primo strappo il sacco in parte si squarciò e lasciò precipitare sull’acqua i sassi che vi erano contenuti facendo sollevare una moltitudine di schizzi che arrivarono quasi fino all’orlo del pozzo. Ziu Franciscu che era noto per il suo scarso coraggio, si spaventò non poco per tutto ciò che gli stava accadendo ed era tentato dalla voglia di mollare tutto e scappare in paese, ma la curiosità prese il sopravvento sulla paura e decise di continuare a tirare su, con cautela, il sacco che sembrava ormai vuoto. Quando il sacco era arrivato all’orlo del pozzo diede un ultimo colpo e lo buttò a terra, come ne sollevò un lembo dallo squarcio che vi si era aperto, gli comparve un piedino piccolissimo bianco come sapone, il terrore aggredì, ziu Franciscu che tornò ad essere il coniglio che tutti conoscevano e scappò verso il paese a gambe levate gridando come un ossesso. La voce fece rapidamente il giro del paese, le ipotesi e le congetture si sprecavano, chi ipotizzava che il bambino fosse stato gettato li da qualcuno estraneo al paese e il fatto che fosse stato scelto un pozzo all’estrema periferia del paese avvalorava questa ipotesi, altri invece ritenevano che l’atto fosse stato compiuto da qualcuno che aveva in odio l’intero paese in quanto si era resa inutilizzabile, per chissà quanto tempo, una delle poche riserve d’acqua ed anche questa non era un’ipotesi da scartare. Altri ancora, forse la maggior parte, semplicemente pensava che il piccolo fosse stato soppresso perché frutto di un adulterio oppure che fosse il figlio indesiderato di una ragazza ancora non sposata. I più interessati a risolvere il caso erano ovviamente i carabinieri arrivati sul posto dalla stazione del vicino paese di Assenias che avevano competenza anche su quel villaggio che non aveva ancora una locale stazione. Il maresciallo Casu era un uomo pragmatico, ed anche se in paese non vi era una stazione di carabinieri, cerano alcuni che lo tenevano informato su tutto quanto succedeva in loco per cui riusciva quasi sempre a risolvere i pochi casi d’infrazione alle leggi che vi capitavano. Per lo più si trattava di furti di bestiame, raramente capitava qualche rapina commessa ai danni della corriera della SITA che trasportava anche la posta e quindi i soldi delle pensioni, più spesso erano furti ai danni dei pochi camion che trasportavano generi alimentari che a causa delle strade fortemente dissestate viaggiavano a bassa velocità, tanto da consentire ai ladri di salirvi e di gettare poi lungo strada ogni ben di Dio che poi veniva rapidamente raccolto e fatto sparire dai complici. Tanti erano invece i furti di bestiame, ma quasi mai venivano denunciati, in genere il derubato si rifaceva su altri se a commettere il furto era gente del posto, se invece a rubare era gente di fuori, allora si organizzavano delle spedizioni che seguivano le tracce del bestiame fino ad individuare i colpevoli, in ogni caso il gruppo non tornava mai a mani vuote. Il maresciallo Casu riteneva che a commettere l’infanticidio, se di questo si trattava, era stata sicuramente una sola persona, al massimo due, e questo rendeva difficile individuare i responsabili tramite le soffiate degli informatori. Inoltre, non poteva neppure pensare di far sottoporre tutte le donne fertili del paese a visita ginecologica, non foss’altro che la stragrande maggioranza di loro non ne aveva mai fatto una in tutta la loro vita e figuriamoci come avrebbero preso la cosa e soprattutto quale magistrato avrebbe mai autorizzato una cosa del genere! Ma il maresciallo era un tipo tosto, si era messo in testa di risolvere il caso a qualunque costo e chiese ed ottenne dal giudice di poter utilizzare una grossa motopompa azionata da un vecchio trattore per procedere al totale prosciugamento del pozzo. All’inizio ci fù qualche difficoltà perché nonostante la motopompa tirasse su una grande quantità d’acqua, il livello sembrava non voler diminuire quindi ordinò che prima si prosciugasse completamente il vicino abbeveratoio e solo dopo si riprese a levare acqua dal pozzo. Nel giro di poco tempo il pozzo fu completamente asciugato, sul fondo si trovarono sassi, un vecchio secchio, forse quello perso da ziu Franciscu, due vecchie ancore utilizzate per il recupero dei secchi ed un pezzo di fune marcia. Non erano un granchè come indizi, quindi il maresciallo Casu, dato che rimanevano ancora alcune ore di luce, decise di convocare sul posto ziu Franciscu Licheri per fargli ripetere come erano andate esattamente le cose quando aveva ripescato il sacco dal pozzo. Ziu Franciscu ripetè per filo e per segno ogni azione che aveva compiuto quel dannato giorno, alla fine il maresciallo annuì soddisfatto e ordino ad uno dei carabinieri di calarsi di nuovo nel pozzo e di recuperare anche tutte le pietre che cerano sul fondo. Addirittura gli mandò giù un badile e volle che il militare caricasse anche il fango che c’era sul fondo dentro un grosso paiolo che veniva tirato su stracolmo di fango, il carabiniere ed anche la gente assiepata attorno erano convinti che l’operazione di pulizia era finalizzata all’immediato riutilizzo del pozzo, ma lo scopo che si prefiggeva il maresciallo non era solo quello. Alla fine dal fango ammucchiato vicino alla cunetta venne fuori un vecchio coltello arrugginito ed altre pietre più piccole di quelle portate su in precedenza. Infine ordinò che il materiale recuperato venisse lavato nell’abbeveratoio che si stava di nuovo riempiendo e che il tutto fosse caricato sulla vecchia campagnola in modo da poterlo esaminare con più calma in caserma e valutare in modo più appropriato l’utilità di questi reperti nelle indagini. Si ripromise anche di passare all’obitorio per recuperare il sacco dentro il quale era stato trovato il feto che era stato invece inviato all’istituto di medicina legale per le analisi del caso. All’epoca non esisteva la possibilità di fare analisi del DNA e non c’era neppure una sezione di polizia scientifica che potesse fare un’analisi approfondita di ogni reperto, il tutto era lasciato all’esperienza ed al fiuto dei vecchi tutori dell’ordine o dei magistrati che dirigevano le indagini. Il maresciallo Casu concentrò la sua attenzione sui tre reperti principali, il sacco, il coltello, le pietre che erano servite da zavorra ed ovviamente il cadavere che però non era più a disposizione ma a breve avrebbe avuto i referto del medico legale che avrebbe dovuto dare l’indizio più importante, il bambino era stato affogato nel pozzo ?, era nato vivo o morto ? oppure era nato vivo e poi ucciso e gettato nel pozzo ?. A queste domande avrebbe risposto il medico legale, per scrupolo controllò anche il coltello arrugginito e convenne che dallo strato di ruggine che lo ricopriva era rimasto nel pozzo almeno un paio di anni, quindi non poteva avere niente a che fare con l’omicidio. Passò quindi ad esaminare i sassi, scartò subito quelli troppo piccoli, se l’assassino voleva fare affondare subito il sacco avrebbe usato sassi di media grandezza, scartò quindi quelli che erano troppo grandi o taglienti perchè potevano squarciare il sacco quando questi veniva gettato nel pozzo. Restarono una quindicina di ciottoli di fiume arrotondati, molto simili tra loro del peso di circa un chilo l’uno, sicuramente erano quelli usati per zavorrare il sacco. Esaminò quindi con cura il sacco, era di iuta come tanti altri che c’erano in paese, non aveva nessuna scritta, ma aveva un particolare importante, al suo interno erano contenuti dei piccoli pezzi di carbone, quindi il sacco era stato utilizzato in precedenza a tale scopo. Il carbone in paese lo usavano quasi tutti, le cucinette a gas erano una rarità, praticamente, che lui sapesse, ne erano in uso solo in due case, a casa del prete e in casa di ziu Geppinu, proprietario dell’unico vero bar del paese, ma anche loro per gli arrosti usavano il carbone. Tutto il paese usava i fornelli a carbone, decise comunque di recarsi il giorno dopo a casa dell’unico carbonaio del paese, Bustianu Pontis, con la vaga speranza che potesse riconoscere quel sacco, magari da qualche particolare che a lui sfuggiva e chiedergli a quale acquirente lo avesse venduto, naturalmente sperando che la provenienza non fosse esterna al paese. Si ricordò del fatto che il mulo che Antoninca usava per trasportare il carbone mal sopportava le divise da carabiniere quindi assieme all’appuntato Maxia, con precauzione si recò nella sua casa. Non fu sorpreso di trovare in casa solo Antoninca, non conosceva personalmente Bustianu, sapeva che era un tipo molto restio a stare in paese e tra la gente, Antoninca invece la conosceva bene perché riforniva di carbone anche la caserma di Assenias ed aveva altri clienti anche tra gli abitanti di quel paese. Antoninca era gioviale come al solito ma non nascondeva una vena di preoccupazione, sicuramente normale per chi si vedeva entrare in casa i carabinieri. Il mulo non si vedeva nei paraggi e questo rassicurò il maresciallo che era memore di quanto gli avevano raccontato il postino Nicu Frau e il prete di Assenes don Peppino Furredda che erano stati letteralmente presi a morsi dopo averlo incontrato in strada. Mostrò a Antoninca il sacco mezzo rotto e le chiese se lo riconoscesse, se le fosse mai passato per le mani, lei lo esaminò attentamente e convenne che non aveva niente di diverso dagli altri sacchi che utilizzava per vendere il suo carbone. I sacchi oltretutto venivano riutilizzati in continuazione, solo a chi era cliente per la prima volta non si chiedeva indietro il vuoto, tutti gli altri, compresi i carabinieri della caserma di Assenes, dovevano rendere il vuoto per averne uno pieno. Riconoscerlo era quindi molto difficile, senza contare che anche i carbonai dei paesi vicini usavano lo stesso tipo di sacchi, roba lasciata dagli americani del piano Marshall, non si doveva quindi escludere che potesse provenire anche da altre parti. Per scrupolo il maresciallo chiese di poter fare un sopralluogo in tutta la casa, tre stanze in tutto, due occupate come deposito per il carbone ed una, la cucina, l’unica abitabile, che di notte veniva utilizzata anche per dormire, bastava stendere la stuoia arrotolata e appoggiata in un angolo ed il letto era pronto. Non notò niente di strano e si convinse che non era li che poteva trovare ulteriori elementi utili a dare una svolta alle indagini, per cui, sempre discorrendo con Antoninca, si diresse lentamente verso il cancello. L’appuntato Maxia si era già avviato in strada e stava parlando con una persona che gli chiedeva cosa mai stessero facendo in casa di Antoninca Baralla, quindi non si accorse che dietro il maresciallo era apparso il mulo. Il maresciallo si rese conto del pericolo solo quando si sentì strattonare la giacca della divisa, il mulo, per fortuna aveva morso solo il martingala del cappotto e strattonava come se volesse strapparlo via, neanche le grida di Antoninca convinsero il mulo a lasciare la presa. Il maresciallo disperato raccolse da terra un sasso e lo sbattè violentemente sulla fronte del mulo che con un’ultimo strappo tirò via la striscia di stoffa e scalciando cercò nuovamente di mordere il poveruomo che per tutta risposta gli tirò con forza il sasso che si era tenuto in mano colpendolo ancora una volta in testa. Stavolta il mulo, per quanto testardo potesse essere capì l’antifona e corse sgroppando verso la parte alta del cortile il maresciallo lestamente raccolse altri due sassi e con uno lo centrò proprio in mezzo alle costole, l’animale battè definitivamente in ritirata infilandosi nell’orto. Il militare, senza mai voltargli le spalle e con il sasso pronto in mano si avviò verso l’uscita, salutò Antoninca non senza intimarle prima di non fare circolare liberamente quel dannato mulo, che gli mettesse una museruola o qualunque altro aggeggio che gli impedisse di mordere altrimenti avrebbe passato dei guai. Uscì rapidamente in strada ancora con la pietra stretta in mano, chiamò l’appuntato Maxia e mentre si avviavano verso la piazza gettò il sasso nella cunetta riflettendo su quale altra pista, oltre al sacco sarebbe stato bene concentrare l’attenzione. Non è che ci fossero altri reperti utili per le indagini, la fune, il coltello,e le ancorette erano arano in acqua da molto tempo, sicuramente più di quanto non ci fosse stato il cadavere, il secchio era stato riconosciuto da Franziscu Licheri come suo e quindi erano tutti da escludere, rimanevano le pietre. Il giorno dopo, fece portare da uno dei suoi carabinieri la cassetta di legno che conteneva i sassi e si concentrò su ciascuno di loro, più di una dozzina erano simili, erano delle codule di fiume di forma ovoidale e di colore scuro, sicuramente raccolte in qualche fiume, improvvisamente, mentre ne teneva uno in mano, riandò con la mente al mulo di Antoninca e ai sassi che gli aveva tirato, parevano uguali. Mandò immediatamente l’appuntato Maxia a recuperare il sasso che aveva lanciato nella cunetta fuori dalla casa di Antoninca, che facesse in fretta e senza dare nell’occhio. Quando Maxia tornò, non potè fare a meno di constatare che il sasso era assolutamente simile a quelli ritrovati nel pozzo, quindi il caso di omicidio poteva dirsi felicemente risolto,per altro in soli tre giorni, probabilmente, per questa sua sagaccia, avrebbe avuto pure una promozione. Cominciò a dettare a Maxia la relazione da inviare al tenente Marroccu del comando di Allas con la richiesta di autorizzazione all’arresto di Antoninca Baralla per infanticidio. Non ci fù neppure bisogno di inviare la lettera che nel cortile della caserma si sentì il rumore inconfondibile della millecento R, auto di servizio del tenente Marroccu. Si affacciò alla finestra e non resistette alla tentazione di gridargli che il caso era stato risolto, per tuta risposta il tenente rispose, lo so ! E quando mai !, pensò il maresciallo Casu ho appena risolto il caso ed il tenente già lo sa, che i mezzi dell’Arma fossero potenti lo sapeva ma che potessero arrivare a tanto non l’avrebbe mai immaginato neppure lui. Il tenente lo raggiunse nel suo ufficio e gli comunicò che il medico legale aveva mandato il suo referto, il piccolo non era stato ucciso, non aveva segni di violenza ne acqua nei polmoni solo il liquido della sacca amniotica, in pratica era nato già morto. Fu una bella delusione per il maresciallo che già contava su un’altra barretta da mettere sulla spalla, peccato, per diventare maresciallo maggiore doveva aspettare ancora un po. Comunque, anche se non era un infanticidio, Antoninca aveva pur sempre commesso un reato, anzi due, occultamento di cadavere e inquinamento di pubbliche acque. La voce si sparse subito ad Asone, il bambino trovato nel pozzo di Prunixedda ed era figlio di Antoninca Baralla, l’avevano già arrestata e portata nelle carceri mandamentali di Allas a disposizione del magistrato che la doveva interrogare. Lei disse che aveva fatto tutto da sola, che il bambino era nato morto e che non sapendo cosa fare, per non dare scandalo aveva deciso di gettarlo nel pozzo, il magistrato inquirente prese atto della sua confessione e dispose il suo trasferimento nelle carceri del capoluogo che disponevano di una sezione femminile. Rimase li per circa un mese, poi il giudice istruttore decise che non era pericolosa e che in attesa del processo poteva essere scarcerata, quando salì sulla corriera per tornare a casa intorno a lei si fece il vuoto, non perché i passeggeri avessero paura di una detenuta appena scarcerata ma perché puzzava come un caprone. In paese era già giunta la notizia della sua scarcerazione ed in molti accorsero all’arrivo della corriera, ma nessuno si avvicinò per accoglierla o salutarla, era ormai già buio e si avviò mestamente verso casa. Più che vedere intuì che il mulo non era più nel cortile di casa, magari l’aveva portato via Bustianu, che ormai non vedeva e non sentiva da più di un mese, alla fredda accoglienza riservatagli dai suoi compaesani si aggiungeva anche il freddo pungente della sera accresciuto dal venticello de jara che tirava da nord ovest. Dato che non riusciva a ritrovare la lanterna a olio ne le candele, decise di accendere il fuoco così si sarebbe anche potuta riscaldare, raccolse rapidamente alcuni pezzi di legno secco sparsi vicino alla legnaia, e quindi lo accese con i fiammiferi che era invece riuscita a trovare nel parastaggio,. Appena la fiamma cominciò a salire alta, vi aggiunse una palata di carbone, srotolò la stuoia e si stese davanti al fuoco. Fissava sul muro annerito le ombre danzanti create dalle fiamme e rifletteva sulle sue disgrazie, che male aveva mai commesso per meritarsi tutto quello che le stava succedendo ?, aveva solo cercato un po’ d’amore nelle braccia di chi poteva darlo ed aveva seppellito il corpicino di un bambino nato morto nell’acqua di un pozzo invece che in terra. Già il pozzo, questo non gli perdonavano i suoi compaesani, per mesi gli aveva fatto bere l’acqua contaminata da un corpo in decomposizione e questo era un crimine imperdonabile per gli abitanti di Asone, l’acqua dei pozzi era il bene supremo, non era in potere a nessuno di renderla inutilizzabile. Lei non l’aveva fatto con l’intento di avvelenare nessuno, ma sotto sotto, era soddisfatta di avere causato la nausea e forse anche altro ai suoi compaesani. Non riusciva a prendere sonno, non perché si stesse meglio nelle celle pulite o nei letti della prigione, anzi preferiva mille volte la sua cucina buia e puzzolente di fumo a qualunque altro posto, semplicemente stava riordinando le idee, soprattutto pensava a come avrebbe reagito Bustianu rivedendola l’indomani, avrebbe fatto il punto della situazione e deciso il da farsi, pian piano la stanchezza prese il sopravvento e si addormentò come un sasso.
(Ogni riferimento a persone o fatti realmente accaduti è puramente casuale) |