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Scritto da Fortunato Loi   
Lunedì 03 Agosto 2009 15:34

 

SA LISSÌA - LA LISCIVA

 

Quando l’acquedotto ancora non era stato costruito, prima del 1960, le casalinghe di Asuni per lavare la biancheria si recavano, in inverno nei ruscelli vicino al paese mentre in alta primavera ed in estate, quando i ruscelli ormai erano in secca, al fiume “Misturadroxiu”.

La località preferita era “su currentiñu” tra  “Sa piscina de Moliñu e mesu” e “Sa piscina de Moliñu e jossu”, raramente si andava oltre sia monte che a valle..

Si partiva la mattina presto, generalmente gruppi di più massaie si dava appuntamento in “Putzu Nou” per fare il percorso  in compagnia. Il tragitto di andata era  in discesa e si  eseguiva  con passo lesto senza effettuare soste.

Da “Putzu Nou”  si percorreva la strada incassata tra i lentischi e i fichidindia, era poco più che una mulattiera, percorribile solamente a piedi. con l’asino o col cavallo.

Tutte le donne erano accompagnate dai figli che per l’età potevano agevolmente effettuare il tragitto ed aiutarle a trasportare l’occorrente per lavare la biancheria.

C’era chi trasportava “sa trebini manna” (trepiede), chi “su  craddaxiu de arramini o de liañu zincau” (catino in rame o lamiera zincata), chi il sacco della biancheria, tutti in fila indiana e con l’allegria degli scolari che si recavano a fare una scampagnata.

Passato su “Strintu de Campusantu” il panorama si allargava  e da “Sa Scocca Manna” si aveva la visione dell’interezza di Monte Ualla  con i suoi boschi di olivastro e lentischio a mezza costa, del bosco di  lecci di “Corongiu e Predi” il bosco di “Abba Suergiu”, quello vicino di fichidindia de “is Sregadas”, oltre alle maestose piante di “arrolli” (rovere) che incorniciavano la sommità.

A destra del monte si poteva ammirare il bosco di lentischi, cisti e querce da sughero di Etzera e Serr’e luna, (non ddus’ianta ancora scotturus”), mentre sul lato sinistro lo splendore delle vigne di “Scala Bingias” e dei mandorleti di “Canali”.

Guadato “S’arrizzollu de Luxias” si percorreva il sentiero fino a “Sa Scocchixedda”  dove non si poteva non soffermarsi ad ammirare il panorama che si parava davanti; l’ho ancora davanti agli occhi, ed ogni volta che la memoria mi riporta a quel periodo e  provo la stessa sensazione che si prova ammirando un’opera d’arte.

Affacciarsi in “Sa Scocchixedda” era ammirare un’opera d’arte della natura.

Lo sguardo spaziava dall’ansa sopra “Sa pixina e Susu” (tanto cara a tutti i ragazzi di Asuni per averci imparato a nuotare) a “Sa Liada” con la suo largo muro di sbarramento ed il sovrastante camminamento  inondato dall’acqua, trasparente, tracimante, non convogliata nel canale di alimentazione del mulino a pale immerso nei pioppi, a “Sa funtanedda de Molinu e Mesu” a “Sa Pixina de Moliñu e Jossu”, al canneto e all’orto de “tziu Ciñu Secci”, ed infine alla cara vecchia passerella sostenuta dai cavi d’acciaio con il camminamento in tavole di legno.

Arretrati lungo la sponda ovest da “Sa Liada” a “Moliñu e Jossu” si ergevano maestosi con le foglie argentee le piante di “Linnabru” (Pioppo) mentre lambiva l’acqua il bosco di “Tramatzu” (Tamerici).

La vallata era un esplosione di colori  che andava dalle varie tonalità di verde dei rovi e del lentischio all’argento dei pioppi e dei tamerici, ed al bianco dell’immensa distesa di asfodeli in fiore ed alla moltitudine di fiori selvatici, il tutto incorniciato dal luccichio del lesto scorrere dell’acqua del fiume.

Arrivati vicino al fiume, ogni massaia con la propria schiera di figliolanza, si sceglieva la postazione ove avrebbe approntato “Sa tella e sciacquai” una pietra, abbastanza grande e piatta, che posizionata inclinata fungeva da lavatoio; nella parte asciutta regolarizzava il terreno e vi posava un cuscino di erbe fluviali su cui avrebbe poggiato le ginocchia.  Tutta la schiera, guadato il fiume, si inerpicava nel costone del Monte Ualla alla ricerca di legna secca; fattane l’occorrente provvista, mettevano “su craddaxiu  asuba de sa trebini” (il catino sopra il treppiede) riempivano  d’acqua e accendevano il fuoco.

Immergevano nell’acqua la necessaria quantità di “cinisu” (cenere), scelta nel caminetto di casa, contenuta all’interno di un sacchetto e si faceva riscaldare l’acqua fino a portarla in ebollizione.

Prima che l’acqua bollisse immergevano nella soluzione calda di cenere e acqua la biancheria sporca che si faceva bollire per il tempo necessario a sciogliere la sporcizia; questa operazione si ripeteva per le varie qualità di biancheria.

Procedevano quindi al lavaggio con l’acqua corrente. Successivamente la biancheria veniva posata sulla pietra inclinata, fregata e battuta  con “sa  spadula” (mazzuolo piatto di legno)  fino a quando non era quasi pulita, quindi veniva fregata con il sapone, normalmente prodotto e confezionato a casa.

Per confezionare il sapone, mi ricordo, si prendeva il catino di lamiera zincata,  quello che usavano per farci il bagno, mischiavano grassi naturali, scarti di maiale, pecora etc, con  acqua e soda caustica,  portavano tutto ad ebollizione, quando il composto assumeva una colorazione grigio-verde ed una consistenza fluida lo stendevano su un tavolaccio facendone una spianata alta circa 5 – 7 cm. . Una volta solidificata, la spianata, veniva sezionata in  pani rettangolari ed i  pani  avvolti nella carta.

Finita l’operazione del lavaggio i panni puliti si stendevano lungo le siepi di rovi..

I ragazzi, una volta approvvigionata la legna “po sa lissia”, e controllato per un periodo che il fuoco fosse sempre sostenuto, sgattaiolavano verso “sa Pixiña de Moliñu e’ susu” per nuotare, quelli che ancora non erano capaci per imparare.

Il  sistema per imparare a nuotare era empirico, non c’erano istruttori se non i ragazzi più grandi con i quali si era legati da vincoli di parentela od amicizia che sorvegliavano ed incitavano.

Insegnavano per prima a costruire un “quaddu  de stoa”  fascio di erbe fluviali, “spauda” legata con una funicella realizzata in loco con “sessini” o giunco, quindi completamente nudi, ci si sdraiava sopra poggiando il torace sul “quaddu  de stoa” (fascio d’erbe) che sostituiva i moderni braccioli gonfiabili di plastica.

Si iniziava a muovere gambe e braccia, prima goffamente facendo sollevare alti spruzzi d’acqua, poi sempre più ritimicamente fino ad acquisire sicurezza e padronanza del nuoto. Una volta imparato a nuotare ( sette, otto anni) ognuno si cimentava nei tuffi de “sa caroña” (spuntone di roccia) che fungeva da trampolino e come con il trampolino si saliva  sempre più in alto per effettuare i tuffi più impegnativi.

La maggior parte dei ragazzi di Asuni ha imparato in “sa Pixiña de Moliñu e’ susu” oltre che a nuotare ad immergersi in apnea e cercare di superare se stessi e gli atri in durata.

Finito di nuotare, “candu intrada su frius”, quando si aveva freddo, per trascorre la giornata si andava in giro ad esplorare il territorio. Quale migliore occasione per vistare il mulino de “Tziu Ciñu Secci”. Il complesso del mulino era costituito da una costruzione rettangolare ove era posizionata la macina e da una costruzione separata che fungeva da abitazione del mugnaio. Le costruzioni erano contenute entro il triangolo formato dalla confluenza del “Misturadroxiu” con “S’arrizzollu de Terrenisca”. Lungo le sponde del ruscello il mugnaio aveva piantato alberi da frutto, mandorli, fichi, peri di varie qualità, susini e mele cotogne; inutile dire che si tentava in tutti modi di rubacchiare qualche frutto quando il mugnaio era intento al proprio lavoro.

Tziu Ciñu, era un uomo alto robusto, taciturno, quasi scontroso, forse per timidezza; con noi ragazzi aveva un atteggiamento burbero, ma alla fine ci permetteva di scorrazzare nell’orto e ci spiegava il funzionamento del mulino. All’interno della stanza, che prendeva luce solo dalla porta, su un basamento al centro, era posizionata la macina; sulla sinistra c’era un piccolo camino, sulla destra la grande ruota a pale spuntava dal pavimento. Sotto il pavimento in un cunicolo si sentiva scorrere velocemente  l’acqua.

La macina del diametro di almeno un metro e mezzo in pietra basaltica, “pedra e molla”, veniva alimentata dall’alto da un contenitore  a cono rovesciato di base quadra.

La trasmissione del moto avveniva per mezzo di assi di legno nelle cui testate   erano inchiavardate  le ruote dentate anche esse in legno. Il tutto collegato alla grande ruota a pale in cui era inserita una ghiera dentata.

Spiegò Tziu Ciñu che quando il fiume aumentava di livello, sganciava gli organi di trasmissione e la pala ruotava liberamente senza opporre resistenza all’acqua che altrimenti avrebbe spezzato tutto. La velocità della macina veniva regolata dal maggiore o minore apporto d’acqua, per fare ciò in prossimità del cunicolo d’ingresso dell’acqua il canale si divideva: uno entrava all’interno della costruzione  e l’altro scorreva lateralmente ad esso. Quindi quando necessitava una maggior velocità si chiudeva il canale laterale con una paratia in legno e si apriva la paratia di controllo del canale della ruota a pale. Viceversa quando vi era un maggior apporto d’acqua dal fiume o quando il mulino doveva stare fermo, si apriva la paratia del canale laterale e si chiudeva la paratia del canale della ruota a pale. Lungo il canale di adduzione c’erano altre paratie di sicurezza che permettevano l’alleggerimento del deflusso dell’acqua nel caso di “unda” (piena). Poi arrivò l’elettricità e Tziu Ciñu  costruì il mulino in paese.

Trascorsa la giornata girovagando nelle rive del fiume arrivava l’ora del rientro e quindi questa volta si doveva fare la strada tutta in salita. Le massaie riponevano i panni asciugati nel catino, si preparavano su “tidilli”, una ciambella di stoffa che si poggiava sulla testa e su cui si posizionava il catino per essere trasportato. Con portamento eretto iniziavano la ripida salita di “Mulinu e mesu”, arrivati in cima a “Sa Scocchixedda”  si faceva una sosta per riprendere fiato, dopo di che si percorreva un tratto di strada a mezza costa, pianeggiante, e quindi si affrontava “S’aziada e Luxias” sulla cui sommità è posta “Sa Scocca Manna”. In “Sa Scocca Manna” facevano un’altra sosta, questa più lunga, sia per riposarsi e sia per scambiarsi gli ultimi pettegolezzi della giornata.

Si percorreva insieme l’ultimo tratto fino a “Putzu Nou” dove parte della combriccola si separava e si rientrava alle proprie abitazioni.

 

                                                                                                                                          

 

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